Il made in Italy e la sovranità alimentare, per citare i nuovi nomi di due importanti ministeri, sono davvero minacciati dall’ondata di insetti commestibili, carne coltivata, etichettature di bevande alcoliche con avvertenze allarmanti sulla salute ed etichette a semaforo come il Nutri-Score? Entrare nel merito delle singole questioni è ormai complicato, forse troppo tardi: i meme sui social e i megafoni, a volte stonati, dei sostenitori e dei contrari hanno preso il sopravvento e fare analisi approfondite è quasi impossibile. Ma vediamo meglio le singole questioni.
Iniziamo subito da un concetto di fondo: l’Italia ed i singoli Stati membri dell’Unione europea hanno ben poca sovranità in materia alimentare, in quanto la grandissima parte della legislazione è oggi sviluppata in ambito euro-unitario. Semplificando, si fa a Bruxelles (e Strasburgo) e non a Roma. Parlando di insetti commestibili e carne coltivata (che, per i detrattori, dovrebbe chiamarsi “sintetica”), si tratta, tecnicamente parlando, di novel food (lo diciamo in inglese perché è ormai un’espressione di uso comune e perché rende l’idea meglio che in italiano). Si tratta di alimenti che non vantano una storia di consumo sicuro nell’Unione prima del 15 maggio 1997, data in cui è entrato in vigore il primo regolamento comunitario in materia. Oggi questi “nuovi alimenti” sono disciplinati dal regolamento Ue n. 2015/2283.
Prima di essere commercializzati, i nuovi alimenti devono essere approvati dalla Commissione europea. Il processo di autorizzazione parte solitamente da una richiesta, che può essere presentata da chiunque, corredata da un dossier tecnico-scientifico in cui deve essere dimostrata la sicurezza dell’alimento per gli usi previsti (una delle parti più delicate è quella sui profili tossicologici). Nella maggior parte dei casi il dossier è valutato dall’Autorità europea per la sicurezza alimentare (Efsa) che ha sede a Parma. Efsa ha un ruolo scientifico e non politico, e, per sfatare un mito, non dà un’opinione positiva su tutti i dossier e non fa alcuna distinzione se il proponente è un’azienda grande o piccola. Anzi, in molti casi Efsa “congela” la propria valutazione per chiedere all’interessato di inviare altri dati o fare nuovi studi. È quanto accaduto di recente, per esempio, sul cannabidiolo (Cbd). Efsa inoltre, quando riceve un dossier valido, lancia una consultazione pubblica di tre settimane su una versione del dossier priva di elementi giudicati confidenziali e chiunque può esprimere la propria opinione (vedere qui).
Ciò che non tutti sanno, è che una volta che Efsa ha adottato il proprio parere favorevole, la palla passa alla Commissione, o, meglio, al Comitato permanente per le piante, gli animali, gli alimenti e i mangimi (Sc-Paff) dove siede un rappresentante per ogni Stato membro e si vota a maggioranza qualificata. La maggioranza qualificata richiede il voto del 55 per cento degli Stati membri (cioè almeno 15) che rappresentano almeno il 65 per cento della popolazione dell’Unione europea. La decisione qui è politica. Tutto l’iter, dalla domanda fino all’approvazione, dura mediamente tre anni e le cifre da investire per preparare un buon dossier possono raggiungere diverse centinaia di migliaia di euro. Nell’Ue, finora, sono stati autorizzati sei alimenti a base di insetti e ancora nessuno a basa di carne coltivata.
È vero, dunque, che l’Unione europea vuole costringerci a mangiare insetti e carne coltivata? Che dobbiamo rinunciare ai nostri prodotti tipici? C’è una congiura in atto? No, nessuna manovra politica anti-italiana. Anzi, in Italia sono nate già diverse start up e aziende molto intraprendenti sul fronte degli alimenti a base di insetti, per cui il settore, ancora agli albori, può vedere i nostri imprenditori competere e primeggiare, creando ricchezza e posti di lavoro.
La normativa, come si è visto, è rigida (la più rigida a livello mondiale), trasparente e con una chiara divisione dei compiti tra scienziati e politici. Forse, volendo trovarle un difetto, è che la procedura è eccessivamente lunga e complessa, al punto che i capitali richiesti per ottenere un’approvazione sono troppo elevati per la maggior parte delle start up, rischiando così di favorire i colossi (spesso non europei).
In quest’ottica, le difficoltà sono ancora maggiori per la carne coltivata, che, a dispetto di quanto si possa pensare comunemente, è carne al 100 per cento e non ha nulla di chimico (per giunta è anche priva di tracce di farmaci veterinari). Brevissimamente, per fare questo prodotto si prelevano cellule da un animale e si mettono in un bioreattore dove vengono alimentate con sostanze nutritive per farle moltiplicare. Il processo è rapido (poche settimane) ma relativamente costoso. Chiaramente è difficile accettare l’idea di sostituire una bistecca con un pezzo di carne coltivata, ma si pensi al caso del foie gras, che impone enormi sofferenze agli animali per essere prodotto. I Paesi Bassi si sono già mossi per attrarre aziende e finanziamenti e ci sono possibilità che questi prodotti, nel giro di qualche decennio, saranno estremamente popolari. Perché dunque voler rinunciare a priori ad una fonte di ricchezza e lavoro?
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