Tecnologia o ritorno alla terra? Globale o locale? Futurismo o sano realismo? Qual è l'approccio migliore per affrontare il problema del cibo di domani e rispondere alla domanda: quali pietanze ci saranno sulla nostra tavola occidentale nel 2050? Abbiamo provato a immaginarlo anche con l'aiuto di chi di futuro se ne intende, Cristina Pozzi, futurologa ed esperta di tecnologie emergenti, e Serena Milano, responsabile Slow Food per la biodiversità, che di terra, agricoltura, allevamento e cultura del cibo sa molto. Premessa fondamentale: «Per dire cosa mangeremo bisogna passare dal come produrremo. A noi interessa l'effetto finale, cosa c'è nel piatto e che sapore ha, ma è innegabile che ciò che acquisteremo e decideremo di mangiare dovrà essere scelto per come viene prodotto: sostenibile per l'ambiente e per il consumatore. E dovrà avere la capacità di lasciare pari valore e risorse di biodiversità» esordisce Pozzi. Un processo che dovrà, comunque, fare i conti con i cambiamenti climatici, con risorse più scarse di suolo e acqua e l'aumento della popolazione.
ANTIPASTO DI ALGHE. È probabile che per la nostra prossima cena come entrée gusteremo un piatto di alghe. Nella cucina asiatica il kombu viene già usato per insaporire e il wakame è servito in insalata e zuppe. Un recente studio della Cornell University dello Stato di New York - Transforming the Future of Marine Aquaculture: A Circular Economy Approach - ci spiega i vantaggi della coltivazione di alghe marine rispetto all'agricoltura terrestre, che, in sintesi, si traducono in sostenibilità nutrizionale e ambientale. Possono fornire migliore fonte di proteine e non richiedono irrigazione e fertilizzanti, terra arabile, acqua dolce e pressione per la deforestazione. Del resto alcune microalghe, organismi viventi tra i più antichi al mondo, sono già nei nostri piatti, come la Spirulina e la Chorella vulgaris. Tra chi già le commercializza, ad esempio, ci sono Arborea, la start-up inglese che porta l'esplicito sottotitolo Cibo senza impronta, e che, come ha scritto The Times, contribuisce a salvare il pianeta con un sistema di coltivazione registrato, Biosolar Leaf, che capta la CO2, utilizza la luce solare e pochissimo terreno non fertile. In Svizzera, invece, c'è la Alver che, forte anche di European Organic Awards 2021 per la categoria Best Health Product, sta ripensando il cibo con proteine non animali ma a base (appunto) di microalghe, come la Golden Chlorella, superfood che, grazie al suo gusto neutro e al colore dorato naturale, è ottima per essere aggiunta a una gamma di prodotti (già in vendita), dalla pasta al muesli.
PIATTO UNICO. Cavallette in umido? O grilli fritti? Gli insetti, sicuramente nutrienti e a basso impatto ambientale, nel nostro mondo occidentale sono ancora molto divisivi. «Pensare a un panino con un grillo è uno scoglio difficilmente digeribile. Oggi siamo abituati a sapori che hanno profonde radici nelle nostre tradizioni. Forse sarebbe più semplice proporre un biscotto creato con farina di grillo che permetterebbe di superare scetticismi culturali» spiega Pozzi.
Dunque, la questione si traduce in: quello che oggi è prelibato in Thailandia lo sarà domani anche su una tavola italiana? «Se pensiamo che un cibo come il sushi, ora più che mai popolare, ha impiegato quasi 20 anni per affermarsi, direi che tra cinque saremo a un punto in cui gli insetti saranno visti come una vera alternativa» spiega Christian Bärtsch, Ceo di Essento, azienda pioniera svizzera che per prima ha introdotto prodotti a base di insetti essiccati, insaporiti ed edibili nella grande distribuzione elvetica, dai grilli alla paprika, alle tarme della farina al sale e pepe, dalle cavallette alle erbe alpine fino ad hamburger e barrette con cacao e mandorle.
«Non abbiamo nessuna preclusione: 2/3 dell'umanità mangia già insetti, e noi molti cugini acquatici, come i granchi e le aragoste. Ma secondo Slow Food, non è quello il fuoco. Il tema è se mai la trasparenza, non solo quello che c'è nel piatto, ma dietro. Ovvero, che ogni produzione lasci alle spalle un paesaggio armonico, una distribuzione equa e nessuno spreco. E quando parliamo di spreco va sottolineato che 1/3 di quello che viene prodotto viene gettato, a tutti i livelli della filiera, dalla raccolta alla distribuzione, fino alle nostre case. È triste dirlo, ma abbiamo perso la cultura del risparmio e del recupero» spiega la Milani. In controtendenza contro lo spreco ci sono, per fortuna, startup come Too Good to Go, Babaco, Second Food Life, app che mettono in contatto consumatori e negozi per recuperare e vendere cibo fresco invenduto.
PASTA RIPIENA. Ma torniamo alle farine di insetti, quelle che forse permetterebbero di superare scogli culturali. In Italia tra le aziende che già lavorano su questo Novel Food c'è la Alia Insect Farm che ancora, però, non vende prodotti.
«Siamo nella fase di autorizzazione. Come stabilito dal Regolamento Europeo sui Novel Food (gli insetti ci rientrano) abbiamo scritto un dossier presentato in aprile alla Commissione europea, ora passato all'Autorità europea per la sicurezza alimentare per la valutazione scientifica. Il nostro studio si basa non solo su una filiera corta, farm to fork 100% made in Italy, ma soprattutto su un processo di produzione particolare, detto di atomizzazione, che renderà la nostra polvere di grillo diversa da tutte quelle attualmente presenti sul mercato europeo» spiega Carlotta Totaro Fila, founder e amministratrice unica. «Tanto che abbiamo chiesto il suo utilizzo in oltre 20 categorie di alimenti, tra cui pasta secca, pasta ripiena, barrette e cereali». Vantaggi ce ne sono molti: alto valore nutrizionale, sostenibilità e pure «il gusto, se opportunamente processata».
UN SECONDO DI PESCE. Sugli scaffali dei negozi troviamo già hamburger plant-based. Ovvero vegetali. Tra le prime a produrli è stata la pluripremiata americana Beyond Meat (la sua ultima creazione, la steak, ha vinto il Fabi Award della National Restaurant Association per la categoria Best Product Innovation 2023) creata da Ethan Brown che, sin dal 2009, ha ricavato proteine, grassi, aromi e carboidrati da fonti vegetali come piselli, fagioli, patate e riso integrale. Oggi produce pollo, burger, polpette e salsicce, e vende in 80 Paesi del mondo, Italia compresa. «La chiamano carne finta, ma i valori nutrizionali sono alti. Niente colesterolo e glutine: 18 gr di proteine vegetali con un ottimo gusto».
Il suo contraltare è il pesce finto dell'altrettanto premiata start up tedesca BettaF!sh. Sa di tonno, sembra tonno come un prodotto uscito dalla lattina, ma non è tonno: Tu-Nah è a base di fave coltivate in Europa e alghe in Irlanda e Norvegia, mixate a estratti vegetali naturali come barbabietola e peperone. Anche qui due giovani: Jacob von Manteuffel che ancora studente in giro per il mondo per girare un documentario sui pionieri delle alghe incontrò Deniz Ficicioglu, autrice di libri di cucina, e insieme capirono il potenziale di un'«alternativa (vegana) alla pesca intensiva». Due anni fa hanno lanciato il loro Tu-Nah sandwich, oggi venduto in più Paesi europei. Plant-based è pure il salmone ideato dalla start up viennese Revo Food fondata nel 2019 da Robin Simsa (anche lui studente di un Phd) dove oggi lavorano insieme 20 tra ingegneri e scienziati. Partiti in Austria con salmone affumicato creato con estratti di alghe, proteine di funghi e piselli, hanno da poco ideato anche il trancio (finto) di salmone stampato in 3D per renderlo anche visivamente simile a quello reale. Potere della tecnologia!
«Non credo che questi potranno sostituire quelli veri» sostiene la Milani. «Perché il problema non è tanto eliminare la carne animale, semmai vietare allevamenti intensivi. E preservare i pastori, veri custodi del territorio».
«Il futuro parla anche di carne e pesce in vitro» aggiunge la Pozzi. «E di tecnologie che ci permettono di fare agricoltura di precisione: droni, robotica, AI e tutto quello che può essere utile per evitare lo sfruttamento intensivo della terra». Altra risorsa cui attingeremo molto di più sono i legumi, chiave di fertilità . Si stima che nel mondo ne esistano 16mila tipi. Una biodiversità straordinaria, non solo per le specie - da fagioli a piselli, da fave e lenticchie a cicerchie - ma per l'enorme varietà di ciascuna.
CONTORNO & FRUTTA. Vertical farm: un termine coniato negli Usa nel 1915. Ed è sempre negli Usa che c'è uno dei più grandi centri di ricerca sull'agricoltura verticale del mondo, della californiana Plenty, che a Laramie, nel Wyoming ha uno stabilimento «con una resa 350 volte maggiore rispetto ad un singolo acro convenzionale» e a breve costruirà la più grande vertical farm al mondo in 3D per coltivare fragole. In Italia esempio florido è, invece, Planet Farms, azienda agritech specializzata nella produzione di baby leaf e basilico. Fuori Milano, a Cavenago, in un gigantesco capannone (l'anno prossimo si aggiungerà un secondo, a Cirimido) produce 30mila confezioni di insalata fresca al giorno. Vantaggi? Pochissima acqua perché sono colture idroponiche, nessun fertilizzante e poco consumo di suolo. Con poca acqua c'è chi riesce a fare "miracoli" anche nel deserto. Come Mohammed Aissaoui, ingegnere cresciuto in Francia in una famiglia di agricoltori, ma tornato a Dubai per dar vita alla sua Farm (su Ig @myfarmadubai) «una simbiosi felice tra hi-tech e natura, dove semina e raccoglie solo prodotti organici». Una chicca sostenibile e autosufficiente al 100%. Lì crescono pomodori, melanzane, cetrioli. Come quelli della nostra sana dieta mediterranea. «Che continuerà ad esserci, eccome. Perché domani vincerà il cibo rispettoso, locale, legato al territorio. Il camice bianco potrà anche funzionare per un orto a Milano, ma attenzione a non perdere un patrimonio di varietà, dignità e potere di sovranità alimentare delle comunità locali» conclude la Milani. Un'esortazione che si traduce anche in: coltivate anche sotto casa.
Qui l'articolo completo https://www.marieclaire.it/food/a44759146/cibo-futuro/
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